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Verso un patto solidale
di Marinella Correggia*
Il settore della Solidarietà
Internazionale non mostra segni di invecchiamento. Le ultime
informazioni che giungono danno prova di una radicale svolta
nel settore che permetterà la partecipazione alla
solidarietà da parte di tutti i cittadini e non solo dei
cosiddetti “esperti”. Una nuova “cartina” della
solidarietà tra i popoli si presenta a noi con nuove strade,
tutte portano ad un nuovo patto solidale e internazionale. La
prima è rappresentata dalla “cooperazione decentrata”. Un
fenomeno abbastanza nuovo, studiato nei dettagli da Vanna
Ianni, del centro di ricerche Cespi. Da lei abbiamo avuto
delle precisazioni.
LE DIVERSE FORME
Al termine vengono attribuiti diversi
significati. L’Unione Europea prevede tre forme:
Cooperazione orizzontale; o
collaborazione tra soggetti simili di paesi del Nord e del Sud
del mondo: associazioni di medici ad esempio, di magistrati,
di cooperative... Potrebbe anche trattarsi di cooperazione fra
comuni. Non coinvolge mai meno di tre partners, tipo: due
paesi europei ed uno Est europeo o africano.
Cooperazione partecipativa:
indirizzata a sostenere un progetto nel Sud del mondo che
coinvolga enti locali e soggetti territoriali, comuni,
province e regioni, assieme ad associazioni di cittadini,
lavoratori, professionisti...
Cooperazione sostitutiva:
subentra quando la cooperazione allo sviluppo tra stato e
stato si interrompe e vengono meno gli accordi bilaterali, per
ragioni inerenti ai diritti umani ad esempio, o nel caso di
embarghi totali, come nel disastroso e inumano blocco
internazionale contro il popolo iracheno che dura dal 1991. In
questo caso gli aiuti allo sviluppo possono essere canalizzati
attraverso enti locali e soprattutto organismi non governativi
(Ong).
Molta parte della cooperazione decentrata
passa per gli accordi di Lomé (Togo) che legano L’Unione
Europea con i paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Esistono
poi programmi come Med-Urb che coinvolgono le diverse città
del Mediterraneo in programmi sostenuti dalla Commissione UE
ed altri che stanno partendo rispetto all’America Latina e
all’Asia.
Altre interpretazioni
A livello italiano la cooperazione decentrata
è stata prevista già dalla legge di cooperazione
internazionale 49/87, che all’art. 2 riconosce fra gli enti
di cooperazione anche regioni, province e comuni. In seguito
almeno 10 regioni si sono date una legge per disciplinare le
attività di sostegno allo sviluppo. E’ intervenuta poi, nel
1993, la legge 68 che permette anche agli enti locali di
destinare una parte di alcune voci del loro bilancio ad azioni
di questo tipo. Così i comuni hanno iniziato a sostenere
progetti, soprattutto di piccola entità proposti da organismi
non governativi o missionari. Ma per molto tempo la
cooperazione decentrata non è mai riuscita a partire a motivo
di ostacoli burocratici e per il quadro confuso creato anche
dalla profonda crisi del Ministero Affari Esteri, principale
attore della cooperazione italiana.
Si sta comunque via via facendo strada un modello di
cooperazione decentrata di tipo “integrato” che è il più
avanzato ed è tipico dell’Italia. Il punto di partenza è
il territorio. Il programma deve coinvolgere, accanto alle
istituzioni locali i soggetti sociali ed economici presenti
nei territori interessati: aziende municipalizzate,
associazioni di volontariato e professionali, cooperative,
organismi non governativi, piccole e medie imprese, scuole,
tutti riuniti in un comitato locale di sviluppo che interessa
il territorio del “Nord” e in modo analogo quello del “Sud”.
Sono i comitati a definire il programma.
Che cosa cambia?
Da un lato sono coinvolti tutti i soggetti
già indicati (mentre i progetti tradizionali riguardano tutt’al
più istituzioni, Ong, gruppi di volontari). Non si tratta
quindi di un progetto settoriale affidato a pochi, ma di un
programma che comprende i settori basilari: salute,
educazione, gestione del territorio, economia locale.
Si fa in modo che possano avere un ruolo tutti gli attori che
già operano localmente, dalla sanità all’ambiente, dall’agricoltura
alle attività produttive e così via.
Si potenziano gli effetti: un territorio comunica la sua
esperienza positiva all’altro. Ad esempio Livorno ha una
buona mappatura del territorio per la gestione di informazioni
e potrà passarla al comune latino-americano con cui sta
lavorando, mentre Carrara comunica la tecnica di lavorazione
del marmo al comune di Xinoteca, anch’esso ricco di
giacimenti marmorei.
A ciò si collega il concetto di co-sviluppo: lo sviluppo non
è una condizione raggiunta una volta per sempre e ci si può
e si deve “sviluppare” insieme. Così il comune di Arezzo
che coopera con un territorio della Repubblica Domenicana da
dove ha preso le mappe di rischio già verificate, le
inserirà nel programma di informatizzazione del proprio
servizio sanitario.
Anche il Sud ha, effettivamente, molto da insegnare. Si nota
invece che, presuntuosamente, gli “esperti” della
cooperazione governativa internazionale e talvolta anche gli
organismi non governativi hanno l’atteggiamento di “docenti”.
Inoltre la cooperazione tra territorio e territorio può
insegnare a cambiare anche il nostro modello di sviluppo,
condizione necessaria perché uno sviluppo mondiale avvenga.
Come avvengono i contatti
A volte si tratta di rapporti di conoscenza
già sviluppati per i motivi più vari. Inoltre L‘Undp
(Organizzazione dell’Onu per lo sviluppo) ha creato l’Unops,
un’agenzia di servizio ai progetti che ha già contribuito
ad attivare rapporti di scambio tra comuni italiani ed altri,
dalla Bosnia all’America centrale. Funziona così: l’Unops
favorisce la conoscenza a livello locale italiano dei piani di
sviluppo nazionale elaborati dai paesi del Sud. Sostiene anche
alcune missioni di rappresentanti di quegli enti locali presso
realtà italiane.
Se queste si mostrano interessate, allora inizia il processo,
badando a mettere in contatto comuni con peculiarità simili.
Non sarebbe tanto logico “abbinare” un comune italiano
marino con un villaggio sulle Ande.
Enti locali italiani coinvolti
Le maggiori città italiane (Venezia, Milano,
Genova, Roma, Napoli, Palermo...) hanno formato un “Forum”
coordinato dal comune di Venezia. Alcuni cooperano attraverso
programmi coordinati dall’Onu. Oppure tramite programmi
regionali riguardanti il Mediterraneo o altre aree.
Questi enti locali hanno ormai uffici per la cooperazione
decentrata. Circa 600 comuni medi e piccoli, molti dei quali
riuniti negli “Enti locali per la pace”, hanno programmi
di cooperazione decentrata che vanno dal finanziamento di una
microrealizzazione alle altre tipologie più o meno integrate.
Spesso lo fanno creando consorzi fra “piccoli”. Nell’ottobre
1996 hanno organizzato un seminario in Toscana per fare un
salto di qualità e trovare sinergie.
Sono belle idee, purchè non si formi anche a livello locale
la casta privilegiata e inutile, o addirittura
controproducente degli “esperti” del Nord (magari
dipendenti comunali o di aziende municipalizzate) a cui si
delega tutto, paracadutandoli con paghe mensili di sette-otto
milioni minimi in paesi dove vivranno in dorato apartheid ed
agiranno certo meno bene degli esperti del posto...
La Borsa ... di juta!
Un titolo in Borsa e... una borsa di juta!
Sono due entità del pianeta economia che hanno qualcosa in
comune. Sembra impossibile: la Borsa è il tempio profano di
giganteschi movimenti speculativi che fruttano denaro
soprattutto ai capitalisti che ne hanno già molto.
La borsa di juta è un semplice oggetto molto concreto che
frutta denaro, qualche dollaro soltanto, alla donna povera del
Bangladesh che la cuce. Hanno in comune il fatto di essere ai
due estremi di un sistema che a ciascuno di noi sembra troppo
grande: la finanza! Tanto grande da non poter essere smosso
neanche di un decimillesimo per 100. La donna cucitrice di
borse e tutti gli altri lavoratori poveri, peggio se
disoccupati, spesso avrebbero bisogno di una piccola somma a
credito per far decollare qualche attività o risolvere un
problema urgente. Ma le banche non gliela forniscono, perché
non sono in grado di dare garanzie patrimoniali (possiedono
magari solo una baracca). Eppure il “credito deve essere
considerato un diritto umano come la casa e il cibo, la base
per mettere donne e uomini in condizione di affrontare la vita”
dice Muhammad Yunus, il bengalese, fondatore della famosa
Grameen Bank, (Banca Rurale) che presta soldi a centinaia di
migliaia di “poverissimi”, aiutandoli a “decollare”.
Diversa-mente essi potrebbero diventare vittime di usurai o
trovarsi in condizione di non poter mai dare ali ai propri
sogni.
Eppure c’è tanto denaro in circolazione per chi lo usa solo
a scopi speculativi! Di esso basterebbe una piccola parte per
fornire crediti a 100 milioni di poveri o creare mille altre
iniziative. Ordinariamente invece il denaro prende altre
strade.
Gli investimenti finanziari a scopo di lucro agiscono in
questo modo: io investo il mio denaro ed esso, passando
attraverso la borsa, ottiene altro denaro, senza nemmeno dover
iniziare un’attività.
I movimenti speculativi di denaro costituiscono la versione
aggiornata del Denaro-Merce-Denaro di Marx:
Denaro-Denaro-Denaro, e raggiungono nel mondo i mille miliardi
di dollari al giorno. Basterebbe imporre su di essi una
piccola tassa dello 0,1% per ricavare in un anno almeno
200.000 miliardi di lire utilizzabili a fini sociali... E si
potrebbero trovare i soldi necessari ad annullare tutto il
debito estero dei paesi più poveri, solo riducendo di
pochissimo gli enormi profitti di pochi individui e delle
società finanziarie.
Non far sapere al risparmiatore
Il guaio è che anche i piccoli
risparmiatori, e comunque tutti coloro, associazioni o
cooperative, che hanno un conto aperto in banca, e che sono
idealmente e praticamente ben lontani dalla Borsa, non hanno
la più pallida idea di quel che viene fatto con i “soldini”
depositati sui loro conti, trasformati in fondo pensione e via
dicendo.
Essi non vanno a finanziare la cooperativa di disoccupati
calabresi che ha messo su una piccola attività artigianale,
né la donna produttrice di sacchi di juta, bensì portano
acqua al gigantesco mare nero in cui confluiscono denaro
mafioso, denaro di chi evade le tasse, denaro riciclato della
droga... Con il risultato di arricchire chi non lo merita
(anche se per ipotesi qualcuno meritasse la ricchezza
materiale!) e di creare un fenomeno - la Borsa internazionale
- capace di condizionare le politiche degli stati.
Ecco come i nostri 5 milioni depositati su un conto corrente
magari in via di assottigliamento, contribuiscono a far danni.
L’economia no-profit ha bisogno di
credito
Tutte le realtà dell’economia sociale
(cooperative, associazioni, enti di volontariato) non trovano
credito presso le banche, anche se stanno già creando molti
posti di lavoro. Si calcola a livello europeo che un quarto
dei posti di lavoro che si creeranno da qui al 2000 saranno
nel “no-profit” nella produzione cioè che non mira a
creare profitto ma solo lavoro e servizi.
Una volta erano importanti le casse rurali e artigiane, ma il
sistema finanziario le ha inabissate. Poi sono state create
quelle espressioni di finanza “etica” (mirata nella scelta
del destinatario del credito) che erano le Mag: Cooperative di
Mutua Autogestione che raccoglievano credito per distribuirlo
solo ad attori no-profit. Ma una nuova legge ha di recente
posto molti ostacoli alla loro attività, pur rivelatasi così
importante.
Esse restano tuttavia una realtà da considerare e hanno un
grande ruolo sul territorio per chi intende depositare i
propri risparmi senza rischiare che vadano a finire nei
circuiti della Borsa ingrassando gente già obesa, o nelle
industrie di armi o nelle multinazionali.
L’ALTRA FINANZA
L’espressione finanza etica può apparire
paradossale. Le leggi del profitto non si sono mai sposate con
gli imperativi morali. Eppure, da qualche anno, si sta facendo
strada un modo nuovo di concepire anche l’economia. Il
principio della responsabilità individuale si è ormai
affermato rispetto ai problemi sociali e ambientali. Si è
diffusa la coscienza che i nostri comportamenti hanno un
impatto non solo sulla realtà che ci circonda ma anche su
quella che appare più remota e a cui le nostre scelte e i
nostri consumi possono essere orientati. Applicare questo
principio anche all’economia significa fare un passo avanti
verso una società diversa, più giusta e più solidale.
Il principio da seguire per concretizzare questo progetto è
la finanza etica, secondo la quale il credito è un diritto
umano e l’accesso al credito, come mezzo di emancipazione da
una condizione di povertà e di emarginazione, deve essere
consentito a tutti. Lo strumento per la sua realizzazione è
la Banca Etica. Non si sta parlando di un nuovo modo di fare
beneficenza. Il concetto di credito è inteso sempre nel senso
“tradizionale” del termine. Si tratta dell’attività
finanziaria intesa innanzitutto come attività di
intermediazione tra chi risparmia e chi chiede di utilizzare
il denaro. Ma la differenza è nella presa di coscienza che il
denaro non è tutto uguale e che sono molti i modi di
impiegarlo. Così ci si interroga su chi sono i risparmiatori,
su come vengono gestiti i finanziamenti e su chi ne
usufruisce, se vengono rispettati i diritti di chi lavora,
come pure l’ambiente e la salute.
La finanza etica in Italia
I principi della finanza etica sono stati
introdotti in Italia sul finire degli anni ‘70. Nel 1978
nasceva a Verona la prima Mag, con l’obiettivo di sostenere
finanziariamente un gruppo di giovani che volevano tornare a
lavorare la terra: si recuperava in questo modo un’unica
tradizione di utilizzo di risparmio, tipica delle società di
mutuo soccorso. Da questa esperienza prese il via il movimento
delle Mag, che oggi è una realtà in molte città italiane.
Queste strutture raccolgono prestiti e capitale sociale dai
propri soci, riconoscendo loro un interesse e finanziando con
questo denaro cooperative e associazioni a tassi vantaggiosi.
Il riassetto legislativo in materia di raccolta del risparmio
per adeguarsi alla normativa europea, verificatosi in Italia
negli ultimi anni, ha reso necessaria la progettazione di una
struttura in grado di raccogliere e gestire il risparmio etico
a livello nazionale.
L’avvio
Nel 1994 nasce così la Cooperativa Verso la
Banca Etica, costituita da molte delle principali
organizzazioni del settore no-profit a livello nazionale;
dalle Acli all’Arci, dall’Agesci a Mani Tese dalle Mag a
Fiba-Cisl Brianza, con lo scopo di dare vita a quello che
sarà il primo istituto di credito etico del nostro paese: la
Banca Etica.
Il progetto iniziale prevedeva la costituzione di una banca di
credito cooperativo, con un capitale sociale di cinque
miliardi. Tuttavia la mancata deroga della Banca d’Italia a
operare a livello nazionale, ha costretto la Cooperativa Verso
la Banca Etica ad alzare la posta.
La futura Banca Etica avrà così l’assetto di banca
popolare, il cui capitale sociale deve però ammontare a
dodici miliardi e mezzo di lire. Attualmente sono stati
raccolti cinque miliardi di lire e, grazie al piano marketing
presentato in novembre alla prima Assemblea della Cooperativa,
si conta di completare la raccolta entro il 1997 e aprire i
primi sportelli della Banca nel 1998.
Come banca cooperativa di interesse nazionale, la Banca Etica
favorirà la massima partecipazione dei soci attraverso un
assetto proprietario “diffuso”. Ogni socio avrà quindi un
limite massimo per la sottoscrizione di quote di capitale, e
comunque verrà rispettato il principio “una testa un voto”.
Chi potrà essere finanziato?
Il settore del Commercio Equo e Solidale, le
organizzazioni a tutela dell’ambiente, le imprese no profit
di servizi, le Ong, le organizzazioni che operano nel campo
dell’animazione culturale, promozione dell’arte, dell’educazione
civica e che favoriscono l’integrazione razziale.
Qualche esempio? Una cooperativa per l’inserimento degli
handicappati nel mondo del lavoro, una “Bottega del Terzo
Mondo” che vende prodotti del commercio equo e solidale,
iniziative di cooperazione e sviluppo ecc.
Nel contesto economico attuale gran parte di questi soggetti
non potrebbero accedere al mercato del credito tradizionale.
Le garanzie patrimoniali richieste dalle banche, infatti, sono
spesso cospicue. La Banca Etica rappresenterà quindi un punto
di svolta; il concetto di “dare credito” recupererà il
suo significato originario. La Banca infatti baserà la sua
attività sul rapporto di fiducia con i soggetti finanziati,
accuratamente selezionati in base alla fattibilità dei
progetti proposti.
I prodotti finanziari offerti dalla Banca
Etica
La Banca Etica, soprattutto all’inizio
della sua attività, non potrà offrire una gamma di prodotti
paragonabili a quelli delle altre banche. Tuttavia la raccolta
del risparmio potrà avvalersi di tre tipologie di prodotti,
tutti nominativi:
Certificato di Deposito Etico.
Il risparmiatore avrà la possibilità di
indicare l’area di destinazione del proprio risparmio:
cooperazione sociale e volontariato organizzato (assistenza,
inserimento lavorativo degli immigrati), associazioni
ambientaliste, agricoltura biologica, cooperazione allo
sviluppo del sud del mondo, commercio equo e solidale,
iniziative culturali, ricreative e sportive. Gli interessi
garantiti ai risparmiatori saranno un po’ più bassi di
quelli offerti dal mercato ma saranno comunque superiori al
tasso di inflazione.
In un secondo tempo saranno affiancati anche altri strumenti
di risparmio: il Conto Corrente Etico e il Conto Risparmio di
Solidarietà.
Sul fronte degli impieghi, chi richiederà un prestito potrà
scegliere tra diverse proposte:
Finanziamento a fronte di crediti con enti pubblici. Si tratta
di uno strumento studiato per venire incontro alle esigenze di
chi, come molte organizzazioni no profit, pur usufruendo di
finanziamenti pubblici, ha esigenza di liquidità immediata.
Mutuo. Finanziamento a medio e lungo termine, servirà a
sostenere acquisti o costruzioni di immobili, impianti e
macchinari o avviamento di attività commerciali.
Il Finanziamento di Liquidità è stato pensato per le
esigenze di copertura delle momentanee difficoltà di cassa
mentre il Credito di Firma sarà una garanzia di solvibilità
del cliente.
Almeno nei primi anni di attività, la Banca Etica non si
propone di diventare la prima, o unica, banca del cliente:
facendo attività bancaria solo in senso stretto (raccolta di
risparmio con cui predisporre l’esercizio del credito) non
svolgerà tutte quelle attività proprie delle banche
tradizionali. Per le operazioni in titoli, i servizi di
intermediazione finanziaria, il leasing finanziario, il
factoring, il credito al consumo e l’emissione e la gestione
di mezzi di pagamento (carte di credito, traveller’s cheques,
lettere di credito) il risparmiatore etico dovrà comunque
rivolgersi, almeno per ora a una banca ordinaria
Solo in questo modo la nascente banca riuscirà a scavarsi una
nicchia di mercato, che le permetterà di rimanere un po’ al
riparo dalla concorrenza delle altre banche. La Banca Etica
infatti dovrà comunque contendersi il mercato del risparmio
ma, fortunatamente non quello dei crediti, dal momento che si
rivolge esclusivamente al no profit.
L’esperienza delle banche etiche all’estero
“Nessuna banca presta denaro a gente senza
garanzie”, è quello che si sentì rispondere Muhammad Yunus
dal direttore della banca della sua città.
Yunus, docente di economia, intuì in quel momento che la
chiave dell’economia è l’accesso al credito e creò i
presupposti per ideare la prima Banca Etica. Le banche
tradizionali non prestano denaro ai più poveri perché non
possono fornire garanzie, anche se hanno buona volontà e
predisposizione all’imprenditoria, mentre un finanziamento
anche di piccola entità, potrebbe permettere loro di avviare
un’attività. Così, nel 1976, decise di fondare la Grameen
Bank, che conta oggi 14.000 dipendenti e che è presente in
35.000 villaggi.
La Grameen Bank che oggi è la quarta banca del Bangladesh,
nel solo 1995 ha concesso prestiti per 380 milioni di dollari
a tre milioni e mezzo di persone (quasi tutte donne), che vuol
dire in media 100 dollari a testa. Con quei soldi è stata
comperata della terra, sono state costruite case, è stata
pagata l’istruzione dei figli o si è avviata una piccola
attività economica. Il 97% di questi prestiti è stato
regolarmente rimborsato alla scadenza. Se si considera che il
tasso medio di insolvenza di una banca tradizionale si aggira
intorno all’8%, si tratta di un risultato che deve far
pensare.
La Grameen è stata la prima banca etica del mondo, un esempio
che è stato seguito poi da molti altri paesi.
Anche in Europa le banche etiche costituiscono una realtà
consolidata, in particolare in Olanda, Svizzera e Germania.
Nel 1980, nasce in Olanda la prima banca alternativa, la
Triodos Bank, con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo di
imprese impegnate nella produzione industriale e agricola
ecocompatibile, nella ricerca di fonti energetiche rinnovabili
nel riciclaggio, nella tutela ambientale e nelle attività
culturali. La Triodos Bank è cresciuta fino a raggiungere
dimensioni di un certo rilievo: 140 miliardi di lire di
raccolta. 90 di impiego, 3.000 azionisti e oltre 10.000
clienti (dati relativi alla fine del 1993). La banca ha
inoltre aperto una filiale in Belgio e una in Gran Bretagna.
In Germania negli anni ’80 si sviluppa un forte interesse
per la realizzazione di progetti economici di sviluppo. Nasce
così la Oekobank, con lo scopo di sostenere lo sviluppo di
attività legate all’ambiente, alla salute e al commercio
equo. Nel 1993 la raccolta di risparmio ammontava a circa 170
miliardi di lire mentre gli impieghi a 63 miliardi.
In Svizzera, nella seconda metà degli anni ’80, apre il suo
primo sportello la ABS (Banca Alternativa Svizzera). I suoi
promotori sono oltre 20 organizzazioni rappresentative dei
mondi della solidarietà, della cooperazione sociale,
internazionale e degli ambientalisti. Nel 1993 la banca, con
sede a Olten, ha raggiunto i 140 miliardi di raccolta di
risparmio, con un impiego di circa 106 miliardi di lire.
Il Terzo Settore in Italia
Nel mare della disoccupazione italiana il
Terzo Settore rappresenta un’interessante realtà per le
possibilità di espansione dell’occupazione.
Nei prossimi anni, secondo uno studio del Gruppo di lavoro sul
Terzo Settore, si potrebbero creare 200.000 nuovi posti di
lavoro nei campi dello stato sociale, della cultura, dell’ambiente.
Della formazione e della multimedialità.
Oggi in Italia il no profit occupa 721.000 persone. Più della
metà (418.000) è costituita da persone che percepiscono un
reddito. Da soli questi addetti rappresentano l’1,8% della
forza lavoro, pari agli occupati del credito e delle
assicurazioni in Italia. I volontari sono 302.000, che
comprendono più di 14.000 obiettori di coscienza. In altri
paesi la quota di occupati è sensibilmente più alta a causa
delle differenze istituzionali esistenti nei settori come l’università
o la sanità. Così negli Stati Uniti le imprese no profit
occupano il 6,8% della forza lavoro, in Francia e Gran
Bretagna il 4% e in Germania il 3,7%.
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