|
MALAWI: La difficile via all’inculturazione
Il 14 settembre 1996 le sette diocesi
cattoliche del Malawi, lanciavano la fase operativa del Sinodo
Africano (10 aprile - 8 maggio 1994). Prendendo lo spunto dall’esortazione
“Ecclesia in Africa” (EA), documento conclusivo del
Sinodo, l’episcopato malawiano con la lettera “Camminiamo
insieme nella fede: il nostro viaggio verso il Duemila”,
tracciava il lavoro da svolgere, partendo dall’alto fino
alla base, coordinando i temi del Sinodo, in particolare
quello dell’inculturazione al quale diamo ampio spazio in
questo articolo.
La
riflessione sui temi del Sinodo offriva l’occasione per
richiamare quanto nei vari campi era già stato compiuto
durante la pur breve storia della Chiesa cattolica in Malawi,
fin dalla prima evangelizzazione, sul finire del secolo
scorso. Appariva chiaro come alcuni temi si presentassero più
importanti, come dei punti nodali, che comandavano l’aggiornamento
delle comunità cristiane nel loro insieme. Tra di essi: l’inculturazione.
Il fenomeno non era nuovo nella storia della Chiesa in Malawi.
Infatti per esprimere i concetti fondamentali del messaggio
cristiano, era già stata fatta la scelta dei vocaboli in
lingua locale. Ma il termine era poco familiare a molti, per
altri equivaleva ad un’operazione di africanizzazione di
aspetti piuttosto esterni alla liturgia e ai canti religiosi
già in atto.
Nuova certamente era la profondità del compito che l’inculturazione
comportava per le comunità cristiane, cioè “l’intima
trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione
nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle
varie culture” (EA.59).
Appariva quanto mai indovinato quello che affermava il
documento “Ecclesia in Africa”, cioè che si trattava di
un compito “difficile e delicato” (62). La scarsa
conoscenza, o anche il disinteresse, di alcuni ebbe come
risultato che, secondo quanto riferiva più tardi il
Presidente nazionale della Commissione per l’attuazione del
Sinodo, “il termine stesso di ‘inculturazione’ venne
malcompreso, malconcepito, abusato, malusato, troppo usato e
non abbastanza usato”, confermando così “che un interesse
profondo per un’inculturazione vera ed equilibrata del
Vangelo si rivela necessario per evitare la confusione e l’alienazione
nella nostra società, sottoposta ad una rapida evoluzione”
(EA 48).
Sappiamo come il problema dell’inculturazione susciti in
tutta la Chiesa animate discussioni, schieramenti e divisioni
fra “conservatori e innovatori”, fra quanti vorrebbero
confinare l’inculturazione al campo liturgico e coloro che,
più sensibili ad una teologia inculturata, vorrebbero
strutture comunitarie più rispondenti alle tradizioni
africane, ed un impegno sociale e anche politico da parte dei
laici nella realtà dei vari paesi. Ci sono poi i diversi
atteggiamenti di quanti vorrebbero “chiare e precise”
direttive da parte dell’autorità e quanti invece auspicano
una certa “libertà di sperimentazione, creatività,
adattamento, pluralismo ...”.
Le norme
I Vescovi del Malawi avevano creato una
Commissione per l’applicazione del Sinodo con il compito
di condurre una ricerca, e stabilire “Norme” da proporre.
La
Commissione ha preparato un questionario che è stato
distribuito a tutti i sacerdoti ed a gruppi scelti di laici,
dai quali attendeva risposte e proposte, per passare poi alla
redazione di alcune indicazioni o “Norme” da sottoporre
alla Conferenza Episcopale. Il questionario accese ancor
più il dibattito, tanto che i Vescovi stessi credettero
opportuno intervenire, nel settembre 1998, con una Lettera
Pastorale.
“L’Inculturazione non è un lusso - diceva il documento
dei Vescovi,- ma un dovere, se si vuole che l’evangelizzazione
metta profonde radici in Africa. Tutta la vita degli Africani
deve essere inculturata: la teologia, la liturgia, la
politica, l’arte e le strutture della Chiesa. Nessun campo
deve essere tralasciato”.
Gli stessi Vescovi membri del Sinodo avevano ammesso che l’inculturazione
è un argomento “difficile e delicato” e ricordavano che
il Concilio aveva attribuito la responsabilità dell’inculturazione
al Vescovo della diocesi o alla Conferenza episcopale di tutto
un territorio.
In attesa delle norme, i Vescovi avevano appurato: “Molte
parrocchie, diocesi, comunità religiose hanno già preso
iniziative che si aggiungono ai nostri sforzi per far sì che
l’evangelizzazione prenda carne e sangue nella nostra
cultura.
Negli ultimi anni una quantità di nuovi esperimenti sono
stati fatti specialmente nella liturgia della Messa. Sono
stati introdotti diversi elementi culturali, a vari gradi.
Questi adattamenti hanno causato reazioni varie e talvolta
opposte, dal fastidio all’esaltazione e alla confusione da
parte sia del clero che del laicato...
La Conferenza episcopale, mentre apprezza la buona intenzione
che sta dietro tutte queste iniziative, nota tuttavia con
preoccupazione la mancanza di coordinamento nelle iniziative
per l’inculturazione, un campo così importante, ma anche
così sensibile.
Succede spesso che perfino il Vescovo diocesano non sia messo
al corrente degli ultimi sviluppi liturgici nella sua diocesi,
sebbene tutte le diocesi debbano avere delle commissioni per l’applicazione
del Sinodo. La mancanza di coordinazione crea confusione tra i
fedeli, mentre proprio la liturgia della Messa dovrebbe
favorire la comunione”.
I Vescovi proposero di riprendere il lavoro ordinatamente:
ogni diocesi avrebbe valutato e notificato alla Commissione
nazionale le iniziative liturgiche, messe in atto negli ultimi
anni specialmente nella celebrazione eucaristica, in vista di
un un rapporto da inoltrare alla Conferenza episcopale e al
gruppo di studio incaricato di redigere alcune “norme”
entro il giugno 1999.
“Chi è nelle tenebre e ha bisogno di
Luce?... Tutti”
Una delle iniziative più significative realizzata alla
base, è stata promossa da P. Alex Chima, sacerdote molto
impegnato nel campo dell’inculturazione liturgica e
scomparso recentemente. La sue iniziative erano seguite con
interesse, anche se non sempre approvate da tutti. Per
difendere le sue idee e le sue realizzazioni, P. Chima, più
che discutere, preferiva ricorrere a degli esempi concreti.
Come nel Natale del 1997.
Lasciamo spazio al suo racconto.
Nel
1997, alle due Messe principali di Natale, quella di
mezzanotte e quella del giorno, celebrate in due chiese
differenti della città, decisi di fare, al posto dell’omelia,
un dramma natalizio, il medesimo in entrambe le chiese.
Non si trattava della solita “Recita” con lo scopo di
presentare una nuova narrazione della natività di Gesù,
raccontata da San Luca. Il nostro dramma era centrato sul
significato del Natale per la gente di oggi: una specie di
Natale in un’esperienza contemporanea. Il tema di questa
speciale omelia era: “Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce”.
Il cast dei personaggi ed attori comprendeva: Jenny, alunna
della scuola, suo padre e sua madre, il suo ragazzo che l’aveva
messa incinta du-rante l’anno scolastico, il prete e due
amiche di Jenny.
Dopo la lettura del Vangelo, terminato col canto del Gloria e
la processione che accompagnava danzando Gesù Bambi-no con
Maria e Giuseppe alla ca-panna, il prete entrò in scena,
guardò verso la capanna del presepio e incominciò a
chiedere: “E’ successo proprio così quella notte?
Poteva Maria ap-parire realmente così calma, pacifica e
soddisfatta, vedendo in quali condizioni sarebbe nato Gesù,
il Salvatore del mondo?”
Qui Jenny, col suo bambino in pancia, uscì da in mezzo alla
gente e disse forte: “Non penso proprio, Padre!”.
Entrando in scena e rivolgendosi all’assemblea fece una
serie di domande: “Come poteva Maria essere così calma
quando era diventata, per nove mesi, oggetto di derisione da
parte di tutti!, il bersaglio dei pettegolezzi di tutta la
comunità, dei suoi parenti, dei vicini, compreso il suo
ragazzo Giuseppe? Inoltre, il Figlio di Dio stava per nascere
in una stalla e Maria non aveva nulla per prendersi
adeguatamente cura di lui. Oh no! - disse - per esperienza so
molto bene come Maria deve essersi sentita quella notte”.
Jenny si avvicinò alla culla.
Entrarono in scena, furibondi, i genitori di Jenny, i quali le
si scagliarono contro dicendole: “Ci hai disonorati! Noi i
responsabili della comunità cristiana! Abbiamo speso così
tanto per la tua educazione ed ora tutto se n’è andato in
fumo!”
Il ragazzo di Jenny non era di grande aiuto nemmeno lui. Tutto
quello che sapeva fare era continuare a consigliare Jenny di
andare a farsi fare un aborto. Anche le sue amiche le
dicevano: “Il tuo futuro è rovinato, Jenny. Come potrai
diventare una hostess o una stenografa se non termini la
scuola? E poi, non potrai più venire a divertirti con noi in
discoteca”.
Anche il prete era perplesso, aveva paura che i suoi sforzi
per aiutare Jenny fossero interpretati come indulgenza verso
il suo comportamento. Jenny si sentì abbandonata e
disprezzata da tutti.
Dopo la nascita del bambino, il prete tornò da Jenny per
persuaderla a ritornare dai suoi genitori e chiedere perdono
umilmente dei suoi sbagli.
Di fronte alla sua resistenza le disse: “Pensi proprio che i
tuoi genitori vorranno rifiutare il loro nipotino?”
Jenny si fece coraggio e ritornò dai suoi. Entrata in casa si
sentì accolta con un: “Ben tornata a casa!” Non potè
credere ai suoi orecchi.
Fine del dramma!
Il predicatore allora prese la parola per guidare l’assemblea
a riflettere, facendo do-mande.
Quando chiese: “Di tutti gli attori che sono comparsi in
scena e hanno recitato in questo dramma, chi pensate, voi, che
sia nelle tenebre ed abbia bisogno di essere illuminato?”,
venne una risposta assordante: “TUTTI!”.
Dopo questa esperienza - concludeva P. Chima - alcuni vennero
a dirmi quanto li aveva commossi questa omelia così
drammatizzata.
Il teatro, luogo privilegiato per l’inculturazione
Il racconto di P. Chima offre un esempio di
inculturazione del Vangelo e del messaggio cristiano tramite
il teatro, molto vicino alla cultura e alla tradizione
africana.
E’ meraviglioso vedere come gli africani sanno mettere in
scena la vita di tutti i giorni con una semplicità
disarmante, senza l’aiuto di prove o di copioni.
Questo perchè il teatro per loro, non è la “riproduzione”
di un fatto, ma è “rivivere” la vita di tutti giorni per
trarne un insegnamento.
C’è qui un luogo privilegiato dove l’inculturazione del
Vangelo può trovare il suo senso più profondo ed efficace.
|