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La vita vale più del debito
Campagna per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri
di Riccardo Moro
Oggi il peso del debito estero dei paesi poveri è terribile, se raffrontato alle condizioni economiche dei paesi che ne sono gravati, e inibisce le possibilità di sviluppo. Non vi è dubbio, ad una prima e sommaria analisi, che sia una questione che chiama alla solidarietà e alla generosità i paesi più ricchi. Ma una più attenta lettura del Levitico e una analisi non superficiale delle cause che hanno portato all’indebitamento attuale ci mostrano aspetti del problema che non hanno solo a che vedere con sprechi di ieri e patinata generosità di oggi.
“Le terre non si potranno vendere per
sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come
forestieri e inquilini. (...) Ciò che è venduto rimarrà in
mano al compratore fino all’anno del giubileo; al giubileo
il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del
suo patrimonio. (...) Se un forestiero stabilito presso di te
diventa ricco e il tuo fratello si grava di debiti con lui e
si vende al forestiero, dopo che si è venduto ha diritto di
riscatto (...) facendo il calcolo con il suo compratore e
pagando il prezzo del suo riscatto in ragione degli anni che
mancano per arrivare al giubileo. (...) Se non è riscattato
in alcun modo, se ne andrà libero l’anno del giubileo: lui
con i suoi figli. (Lv 25, 23. 28. 47-48. 54)
Con meticolosa chiarezza, assai più articolata di quella che
abbiamo raccolto in questa citazione iniziale, il Signore, nel
libro del Levitico, ordina al suo popolo di celebrare ogni
cinquant’anni un giubileo. L’anno del giubileo è santo e
deve essere dedicato a proclamare la liberazione del popolo di
Israele. In ragione della importanza e della sacralità di
questa festa, le terre, originariamente divise tra le famiglie
del popolo di Israele secondo giustizia, dovranno ritornare ai
proprietari originari, i debiti andranno cancellati e gli
schiavi rimessi in libertà.
Lette oggi le parole vibranti del Levitico appaiono piuttosto
inconsuete e difficili da mettere in pratica, immersi come
siamo in una organizzazione sociale molto diversa da quella
del popolo a cui erano rivolte. La proclamazione dell’anno
giubilare per il 2000, viceversa, richiama in modo pressante a
questo libro dell’Antico Testamento. La lettera enciclica di
convocazione del Grande Giubileo dell’anno 2000, la Tertio
Millennio Adveniente, fa riferimento esplicito al Levi-tico
non solo per convocare l’Anno Santo, ma anche per collocare
in esso alcuni impegni, quali la eliminazione della schiavitù
originata dai debiti. Con autorevolezza il papa chiama i
cristiani e le nazioni del mondo a vivere il Giubileo del 2000
“come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, ad una
consistente riduzione, se non proprio al totale condono del
debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni”
(TMA, 51).
L’economia del popolo di Israele era fondata sull’agricoltura.
Si viveva dei frutti della terra lavorata dall’uomo e dell’allevamento
del bestiame. Quelli che in economia si chiamano fattori
produttivi, cioè quegli elementi che concorrono a consentire
la produzione dei beni e la erogazione dei servizi, erano due:
il lavoro e la terra. Un uomo resistente o laborioso produceva
più di uno debole o pigro, una terra fertile rendeva più di
una sassosa e secca. La possibilità di produrre stava nella
disponibilità dei due fattori produttivi, cioè di braccia e
di terra. La economia del tempo scambiava pochi altri
prodotti, tutti realizzati attraverso il lavoro umano, quali i
manufatti artigianali.
Dunque l’importanza data alla terra dal testo del Levitico
era legata al suo ruolo nell’economia, tanto che il ritorno
al proprietario originario valeva solo per la terra lavorabile
e le case erette in zone agricole, le case all’interno della
cinta muraria cittadina potevano esser acquistate
permanentemente (cfr. Lv 25, 30-31).
In una economia di questo tipo il Signore dà alcune
indicazioni precise. La terra non si può vendere in modo
definitivo “perché la terra è mia e voi siete presso di me
come forestieri e inquilini” (Lv 25, 23). Quando la si vende
il suo prezzo varia in funzione della distanza dall’anno
giubilare, tanto maggiore se il giubileo è lontano, tanto
minore al suo avvicinarsi “perché quello che si vende è un
certo numero di raccolti” (Lv 25, 16). Se per qualunque
ragione ci si trova in povertà e nella necessità di
indebitarsi, i debiti vengono rimessi nell’anno giubilare.
Se per pagarli si è ceduta al creditore la terra e, nel caso
in cui questo non fosse sufficiente, ci si è concessi a lui
in schiavitù, al giubileo la terra torna di proprietà, il
debito è rimesso ed è resa la libertà.
Rimanendo sul piano economico, e non volendo quindi esaurire
con queste note una più ampia e competente esegesi del testo
biblico, da queste regole possiamo trarre due indicazioni.
In primo luogo la terra non è nostra, noi ne siamo solo
amministratori. In secondo luogo essa è a disposizione di
tutti e non si può, se non in modo temporaneo, eliminare
qualcuno, sia pure a pagamento, dalla possibilità di
disporne. Questo nel linguaggio di oggi significa che il
diritto all’accesso ai mezzi di produzione è di tutti.
Tutti hanno diritto di disporre dei fattori produttivi. Non si
può togliere in modo permanente ad una persona o ad una
comunità sociale il diritto di disporre dei mezzi di
produzione, il diritto di lavorare!
Nell’economia di oggi l’importanza della terra è
praticamente scomparsa soppiantata dall’importanza delle
macchine, anche in agricoltura. Si tende quindi a considerare
solo i fattori produttivi lavoro e capitale. Peraltro proprio
per procurarsi le macchine, il capitale fisico, gli operatori
economici utilizzano i risparmi dei consumatori, facendoselo
prestare ad interesse. Il mercato finanziario si è così
sviluppato che sarebbe impossibile immaginare di cancellare i
debiti periodicamente. Si pensi che moltissime persone in
tutto il mondo lavorano all’interno del mercato finanziario.
Una cancellazione periodica dovrebbe fare i conti con la
sospensione del reddito di milioni di persone che fanno un
lavoro oggi necessario all’economia. Il monito del Levitico
va quindi preso nella sua sostanza più che nella sua lettera.
Se la prima indicazione fondamentale è quella di consentire a
tutti l’accesso al lavoro, la seconda è quella che invita a
considerare l’uomo superiore all’economia piuttosto che al
suo servizio. Gli uomini devono provvedere a garantire
meccanismi che consentano di tornare all’equilibrio di
equità iniziale. E questo nelle società di oggi dovrebbe
essere compito della politica. In particolare poi la
remissione periodica dei debiti altro non è che l’affermazione
che va garantito ad ogni persona il diritto ad una nuova
partenza. Errori o situazioni sfortunate non possono pesare
come una schiavitù permanente all’interno della comunità
umana. Ogni uomo, anche dopo gli errori più macroscopici deve
avere il diritto di ricominciare.
Infine vi è un ultimo insegnamento che possiamo raccogliere,
particolarmente attuale. Se la terra deve essere a
disposizione di tutti, ciò significa che gli uomini
personalmente e collettivamente hanno il dovere non solo di
garantirne il godimento a tutti, ma anche alle generazioni
future. E’ il grande tema della tutela delle risorse
naturali, tanto devastate dalla industrializzazione sviluppata
senza regole soprattutto, ma non solo, nel terzo mondo.
E’ da considerazioni di questo tipo che si è fatto
riferimento a questa grande tradizione biblica per fondare l’appello
alla cancellazione dei debiti dei paesi poveri. Oggi il peso
del debito estero impedisce ai paesi poveri di fare
investimenti di sviluppo, negando la possibilità di
partecipare al commercio internazionale. Errori e meccanismi
perversi hanno generato un indebitamento che non vede
soluzione nel momento in cui internazionalmente non esiste un
meccanismo di gestione delle insolvenze come quello che esiste
a livello nazionale per i fallimenti. In questo quadro i
cittadini del Sud del mondo sono condannati ad una vera e
propria schiavitù, pagando di interessi cifra quadruple di
quelle che riescono a destinare al finanziamento delle scuole
e della spesa sanitaria, come avviene in Africa.
Ma il richiamo a ricreare condizioni di equità fra gli uomini
a livello internazionale diventa drammaticamente più esigente
nel momento in cui si analizzano le ragioni che hanno
determinato la situazione attuale.
L’origine della crisi
La forte esposizione debitoria dei paesi in
via di sviluppo ha avuto la sua origine in occasione della
prima crisi petrolifera internazionale. Tra il 1971 e il 1973
i prezzi delle materie prime quadruplicarono e i paesi
produttori (in particolare i paesi arabi) si trovarono con una
enorme disponibilità finanziaria, largamente superiore alle
capacità di spesa interna e al fabbisogno di quei paesi.
Le banche commerciali raccolsero questa abbondante liquidità
(i cosiddetti petrodollari) e la offrirono sul mercato
internazionale. La grande massa finanziaria disponibile fece
scendere i tassi di interesse rendendo poco costoso l’indebitamento
(la grande offerta di un bene ne fa diminuire il prezzo e per
la moneta il prezzo è costituito dal tasso di interesse). Era
un periodo di alta inflazione internazionale, generata dalla
impennata dei prezzi petroliferi, e la combinazione di alta
inflazione con bassi tassi di interesse rendeva l’indebitamento
molto vantaggioso. Per un certo periodo il tasso di interesse
reale risultò addirittura negativo (vedi inquadrato n°1) e
le grandi banche commerciali spinsero fortemente all’indebitamento
i paesi del Sud del mondo, che avevano il maggior fabbisogno
di capitali per migliorare strutture e infrastrutture interne.
I Paesi in via di sviluppo (PVS) si indebitarono e per qualche
anno la situazione rimase sotto controllo. Con la seconda
crisi petrolifera però, nel 1979, si verificò una nuova
impennata dei prezzi del petrolio che generò sì una nuova
inflazione internazionale, ma accompagnata questa volta da un
surriscaldamento dei tassi di interesse. Il fatto nuovo era
costituito dalla affermazione delle politiche monetariste e
neoliberiste negli Stati Uniti e in Inghilterra, concretizzate
in politiche monetarie restrittive che spingevano alle stelle
i tassi di interesse (Vedi inquadrato n°2).
Le politiche dei due paesi determinarono effetti a catena
nella stessa direzione negli altri paesi del Nord e tutta la
struttura dei tassi di interesse si innalzò in modo
impressionante, determinando notevoli difficoltà per i paesi
indebitati. I prestiti erano sottoscritti in dollari e a tasso
variabile. Paesi che avevano iniziato il rapporto debitorio
pensando di dover pagare circa il 5% ogni anno, si trovarono a
pagare il 30%. In qualche caso l’aumento fu così forte da
determinare l’impossibilità di restituire quote di capitale
e consentendo solo il pagamento della quota di interesse.
Peraltro, a fronte dell’aumento dei prezzi del petrolio, le
materie prime non petrolifere non subirono variazioni di
prezzo. Anzi, la recessione che la crisi petrolifera generava
spinse verso il basso i prezzi delle materie prime, che
costituivano in genere la parte principale delle esportazioni
dei paesi poveri. Si verificò così un peggioramento delle
ragioni di scambio dei paesi debitori, che rese più grave il
peso del debito e degli interessi. In sostanza a fronte della
stessa quantità di merce esportata - e cioè di lavoro - le
entrate finanziarie erano inferiori.
Inoltre gli Stati Uniti avevano l’obbiettivo di innalzare il
valore del dollaro e le politiche di stretta monetaria erano
funzionali anche a questo (n°3).
Il dollaro a partire dal 1979 aumentò il proprio valore
rispetto a tutte le altre valute, fenomeno praticamente senza
precedenti nella storia dell’economia. Quel fenomeno fu
terribile per i paesi debitori, perché il cosiddetto servizio
del debito (la spesa per interessi più le rate di
restituzione) non solo era aumentato a causa dell’aumentare
del tasso di interessi, ma si moltiplicava per la
rivalutazione della moneta americana. Il valore dell’unità
di misura (il dollaro) cambiava ai danni della moneta in base
alla quale si producevano le risorse per ripagare i debiti
contratti (le valute locali dei PVS) (n°4)
Questa situazione rese insostenibile il servizio del debito
fino a quel momento rimborsato dai paesi indebitati: nel 1982
il Messico per primo dichiara la propria insolvenza, seguito
da quasi tutti i pesi debitori avviando così la crisi del
debito estero dei paesi in via di sviluppo.
Le cause collaterali
Oltre ai fatti che hanno scatenato la crisi,
esistono contemporaneamente altri fenomeni:
Modelli di sviluppo che non tenevano conto delle
caratteristiche locali, anche solo dal punto di vista della
formazione professionale. (Non si può impiantare ‘qualunque’
impianto industriale in ‘qualunque’ sito senza progettare
gli interventi necessari perché quell’impianto possa essere
mantenuto in funzione e in efficienza, senza tenere conto
delle persone che lo dovranno mantenere).
Lo sperpero di denaro pubblico in spese militari.
La fuga dei capitali (il denaro prestato veniva “rubato”
da politici e dirigenti per reinvestirlo al nord)
Il finanziamento al consumo anziché a investimenti di
sviluppo. (Spesso il denaro veniva utilizzato -
comprensibilmente - per agevolare i consumi di prima
necessità, troppo cari per molta parte della popolazione.
Questo impiego però non produceva alcun rendimento, come
avrebbe potuto invece fare l’utilizzo per investimenti.
Occorre aggiungere però che in molti casi il finanziamento al
consumo non beneficiò affatto la popolazione ma
esclusivamente le classi dirigenti o i singoli leader dei
paesi, senza alcuna destinazione a scopi sociali).
La somma di questi fattori determinò la crisi che perdura
tuttora, sottraendo notevoli risorse allo sviluppo. Oggi la
situazione non è cambiata significativamente. La comunità
politico finanziaria del Nord ha proposto al Sud al massimo
accordi di riscadenzamento e programmi di aggiustamento
strutturale che, concepiti per economie sviluppate, hanno
ottenuto come risultato il gravissimo impoverimento della
popolazione generando, ad esempio, problemi di fame anche in
aree dove storicamente non si erano mai verificati.
Le ragioni dell’appello
A questo punto, effettuata una rilettura
delle dinamiche macroeconomiche che hanno portato alla crisi,
è possibile esaminare le ragioni che fondano la richiesta di
rimettere il debito ai paesi in via di sviluppo, o quanto meno
di ridurlo sino a raggiungere una soglia di sostenibilità.
Una ragione storica
Una tesi che viene espressa con forza
soprattutto dal mondo africano è quella che vede il problema
del debito in prospettiva storica. Nel periodo del
colonialismo il Sud del mondo, e in particolare l’Africa, è
stato defraudato delle proprie ricchezze naturali. I paesi del
Nord hanno disposto a proprio piacere delle ricchezze
minerarie, agricole e persino umane dei popoli del Sud.
Nessuno ha tenuto una contabilità di quanto è stato
sottratto. Nessuno può fare un calcolo di quanto valga una
vita ridotta in schiavitù. In prospettiva storica le
popolazioni del Nord sono debitrici verso quelle del Sud di
valori letteralmente “non restituibili”.
Quando il pagamento degli interessi sul debito in un paese
africano oggi supera in media di quattro volte la spesa
sanitaria annuale (a fronte di tassi di mortalità infantile
entro il quinto anno di vita spesso superiori al 30%),
qualunque cittadino africano ha diritto di dire che gli
interessi non vanno più pagati e che, anzi, il debito va
azzerato, per ridurre di un’inezia il credito di cui egli è
titolare verso di noi, a causa delle spoliazioni dei secoli
scorsi.
Questa posizione ovviamente esula da ogni inquadramento
tecnico del problema, ponendolo su un piano prettamente
politico. Ma per quanto metta in gioco considerazioni
di carattere forse troppo generale è,
ovviamente, autenticamente fondata.
Una ragione di convenienza
Una seconda ragione che fonda la richiesta di
cancellazione è quella che parte dalla considerazione che i
paesi indebitati partecipano in forma scarsissima al commercio
internazionale. Oggi l’Africa, con i suoi 700 milioni di
abitanti, partecipa per il 4% al commercio mondiale. Liberare
i paesi dal peso del debito consentirebbe loro di destinare a
investimenti produttivi le risorse oggi usate per la
restituzione del capitale e il pagamento degli interessi. Un
rilancio della produzione darebbe loro nuova possibilità di
accedere con vitalità al commercio mondiale, ottenendo come
risultato una maggiore domanda anche dei beni venduti dal
Nord. Rinunciando al pagamento degli interessi e del debito, i
paesi creditori otterrebbero in cambio la possibilità di
avere nuovi clienti per i loro prodotti, quindi maggiori
entrate, (con benefici, ad esempio, anche sulla occupazione
del Nord). In sostanza molti ritengono che cancellare il
debito comporti vantaggi non solo per i debitori, ma anche per
i creditori, e vantaggi duraturi.
Una ragione di solidarietà
La terza ragione afferma che le condizioni di
povertà in cui versano molti paesi indebitati è scandalosa.
I creditori ricchi non possono rimanere indifferenti vedendo
il tipo di vita condotto dai debitori e continuare a ricevere
da questi il pagamento degli interessi. Qualunque coscienza
eticamente sensibile non può non sentirsi provocata. Questa
leva, quella morale, clamorosa nella sua evidenza, è quella
che ha consentito di arrivare oggi a parlare di cancellazione
del debito, sia pure parziale, anche negli ambienti delle
istituzioni finanziarie internazionali come Banca Mondiale e
Fondo Monetario Internazionale.
Una questione di giustizia
Vi è una quarta considerazione, infine, che
sostiene le ragioni della sanatoria, ed è una considerazione
che fa leva sulla giustizia piuttosto che sulla solidarietà e
risale alle dinamiche macroeconomiche che abbiamo esaminato.
Le politiche di USA e Gran Bretagna, provocando l’impennata
dei tassi di interesse e del dollaro, determinarono lo
sviluppo della crisi e moltiplicarono gli esborsi, in valuta
locale, dei paesi debitori. Si verificò insomma un fenomeno,
provocato volutamente dalle scelte politiche dei creditori,
che penalizzò i debitori e avvantaggiò i creditori.
Se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite
utilizzando come unità di misura non il dollaro, ma un
paniere di monete che tenga conto delle variazioni di valore
di tutte le monete, comprese quelle locali, si ottiene che per
quasi tutti i paesi il debito è stato già restituito
completamente e in qualche caso anche più volte, dunque nulla
più è dovuto.
Questa tesi si fonda sul convincimento che nella logica della
giustizia liberale ciò che i sottoscrittori firmano, e dunque
ciò che li vincola nel negozio giuridico, è la sostanza del
complesso di diritti e doveri individuati. La lettera del
contratto altro non è che la rappresentazione di quella
sostanza. Se, per qualche ragione, mutano radicalmente le
condizioni del contesto all’interno del quale si giocano i
diritti e doveri, al rispetto dei quali ci si era
reciprocamente impegnati, occorre verificare che la lettera
degli accordi sottoscritti mantenga la capacità di
rappresentare la sostanza che si era sottoscritta. In questo
caso il mutamento del contesto ha fatto cambiare il
linguaggio, ha fatto sì che la lettera dei contratti
esprimesse una sostanza fino al 1978, ed esprimesse tutt’altro
significato appena 18 mesi dopo. Le grandezze cui facevano
riferimento i contratti di finanziamento sottoscritti dai PVS
sono mutate profondamente dalla stipula, cambiando, sino a
snaturarla, la sostanza dei termini che creditori e debitori
inizialmente avevano concordato.
In un contesto nazionale la legge tutela le parti di un
negozio giuridico e definisce come modificarlo (o rescinderlo)
nel caso in cui i termini con i quali il contratto viene “misurato”
mutino radicalmente, cambiando in modo sostanziale il
complesso dei diritti e dei doveri che le parti avevano
sottoscritto. In Italia abbiamo avuto il recente caso della
ridiscussione dei mutui casa a seguito del consistente
abbassamento dei tassi di interesse. E’ un esempio di come
sia possibile, in un contesto giuridico liberale e di mercato,
intervenire legislativamente per garantire il rispetto della
sostanza degli impegni presi. A livello internazionale invece
oggi non esiste un organismo a cui fare riferimento per
svolgere questa funzione.
E’ anche a partire dalla questione del debito, in ragione
della distorsione che abbiamo descritto che oggi da molte
parti si richiede la riforma delle relazioni finanziarie
internazionali e, in particolare, delle istituzioni
multilaterali, cioè della Banca Mondiale e del Fondo
Monetario Internazionale
Tutt’e quattro le considerazioni elencate portano a
individuare nella cancellazione del debito la soluzione da
perseguire. Ma è la quarta quella che guarda con più
autenticità alle donne e agli uomini del Sud e fa chiedere
con maggiore autorevolezza di sanare la contabilità del
debito. Non si tratta infatti di condonare, ma di sanare le
distorsioni di una contabilità perversa che usa sempre l’unità
di misura del Nord e mai quella del Sud. La questione riguarda
la giustizia prima della solidarietà. Il debito non va
cancellato perché c’è un debitore senza dignità che non
sa essere autosufficiente, ha fame e tende la mano. Le
scritture del debito vanno stornate perché il debitore ha
già pagato.
Occorre che questo venga affermato in modo esplicito, per non
fuggire l’ammonimento che l’Apostolicam Actuositatem
rivolge con chiarezza: “siano anzitutto adempiuti gli
obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come
dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia.”
(AA, 8).
L’azione per la riduzione del debito
Nel quadro internazionale, nel quale
convivono ragioni e sensibilità diverse, non è stato facile
tenere alta la voce di chi chiedeva con urgenza un intervento
della comunità internazionale. Tra le voci che chiamano ad
una sensibilità ed una azione concreta su questo argomento si
è levata con particolare autorevolezza e gravità quella del
Papa.
Rispondendo a quell’appello in Inghilterra CAFOD e Christian
Aid (le ONG cattolica e anglicana) hanno lanciato la campagna
Jubileo 2000, a cui ha aderito anche la CIDSE, la rete
internazionale delle ONG cattoliche, che ha presentato al
summit del G8 di Colonia il 19 giugno 1999 l’appello per la
cancellazione firmato da circa 20 milioni di persone con una
bellissima catena umana di 35 mila persone che hanno
abbracciato l’intera città.
Collegate alla Jubilee Campaign 2000 si sono sviluppate
numerose campagne nazionali praticamente in tutti i paesi del
mondo.
Durante il 1998 CIDSE e Caritas Internationalis hanno
presentato, con contributo della Fede-razione Italiana dei
Volontari nel mondo-FOCSIV, il documento “Putting Life
before Debt” (“Far passare la vita prima del debito”), (“Volontari
e Terzo Mondo” n° 4/97).
L’impegno della chiesa cattolica continua con CIDSE e
Caritas Interna-tionalis coordinando quest’anno l’adesione
delle rispettive campagne nazionali agli eventi
internazionali. In particolare a Colonia è stato presentato
una settimana prima del vertice un documento firmato da
vescovi cattolici dei sette paesi partecipanti al summit e di
molti paesi debitori.
Per quanto riguarda la Chiesa italiana, la Conferenza
episcopale ha approvato nel mese di gennaio la “Campagna
ecclesiale per la riduzione del debito estero dei paesi più
poveri”.
Dopo la proposta fatta da Volontari nel mondo - FOCSIV all’ufficio
Cooperazione fra le Chiese all’inizio del 1998, si è creato
un gruppo di lavoro provvisorio con la partecipazione di tutte
le componenti ecclesiali che si occupano di terzo mondo (FOCSIV,
missionari, Caritas) e i rappresentanti delle principali
associazioni e movimenti ecclesiali che hanno attività
pastorali in Italia (l’Agesci, l’Azione Cattolica, le Acli,
Comunione e Liberazione, i Focolarini etc.).
L’obiettivo del gruppo di lavoro infatti era realizzare un
cammino di Chiesa per proporre una campagna che coinvolgesse
non solo gli ambiti che si occupano naturalmente del Sud del
mondo, ma anche quelli educativi e pastorali italiani, per
diffondere l’attenzione a questo tema nel modo più diffuso
possibile all’intera comunità nazionale.
La CEI ha lanciato la campagna costituendo un comitato
presieduto da Mons. Nicora con vicepresidenti mons. Andreozzi
(Dir. uff. cooperazione fra le Chiese) e don Damoli (Dir.
Caritas italiana). Segretario è Luca Jahier (Pres. Focsiv) e
coordinatore della parte tecnica del progetto Riccardo Moro (Focsiv).
La campagna intende rendere efficace in Italia l’appello per
la cancellazione del debito dei paesi poveri, cogliendo l’occasione
per avvicinare le persone che vivono nel nostro paese a quelle
che vivono nei paesi del Sud. Sono stati individuati quindi
tre indirizzi della campagna.
1. L’indirizzo pastorale
ed educativo
L’obiettivo è informare tutta
la comunità ecclesiale. Il tema del debito non è privo di
difficoltà e non è ben conosciuto. Si intende far passare le
informazioni relative alle origini e cause del debito, alla
situazione attuale, alle possibili vie di soluzione perché ad
ogni persona della comunità ecclesiale sia possibile
conoscere le attuali condizioni di vita al Sud, confrontarle
con quelle del Nord e avviare stili di vita che consentano
coerenza tra i nostri comportamenti e la richiesta di vita
dignitosa nel terzo mondo.
2. La animazione della
società e la pressione politica
Si intende far crescere la consapevolezza di
questo problema in tutta la società civile italiana e non
solo nella comunità ecclesiale, in modo da far maturare la
coscienza politica sulla responsabilità delle nazioni
industrializzate nelle questioni internazionali che mettono in
gioco la vita di milioni di persone. La chiesa italiana
intende quindi premere presso Governo e Parlamento perché
siano attivati interventi di cancellazione del debito che
rendano più facile la vita nei paesi debitori e consentano
nuovo sviluppo.
Alle istituzioni italiane si chiede di promuovere l’istanza
di cancellazione anche nelle sedi internazionali, quali quelle
del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale e,
in particolare, negli incontri dei G7.
3. Una assunzione di
responsabilità
Infine, per provocare una reazione alla
richiesta di cancellazione la Chiesa italiana, tramite il
comitato costituito, lancerà una grande raccolta di fondi per
finanziare una operazione di conversione di debito di alcuni
paesi (debt swap).
Si tratterà di acquistare dai creditori, in linea di massima
il governo italiano, il debito di uno o più paesi
particolarmente indebitati con l’Italia. I debitori pagano
ogni anno gli interessi, ma l’ammontare del capitale dovuto
è troppo grande perché possa essere restituito (ciò a causa
della eccessiva rivalutazione del dollaro negli anni ‘80 e
all’imposizione di tassi di interesse elevatissimi). Proprio
per la mancata restituzione del capitale il valore reale del
debito è minore rispetto a quello nominale. Il creditore è
disposto a cedere il credito anche a fronte del pagamento di
una somma minore di quella nominale.
La Chiesa italiana acquisterà il debito di uno o più paesi
poveri al suo valore reale, estinguendo quindi il debito con
lo stato italiano, e contemporaneamente il governo locale
metterà a disposizione, su un fondo di contropartita in
valuta locale, la stessa somma pagata dalla Chiesa. Il denaro
raccolto, con questa operazione, arriverà comunque al Sud, ma
ottenendo anche la estinzione del debito. Il fondo di
contropartita servirà a finanziare progetti di sviluppo umano
e sarà amministrato dalla chiesa italiana con la chiesa
locale e i rappresentanti della società civile locale.
In questo modo il debito, da ostacolo si trasforma in
opportunità per lo sviluppo, e la dimensione qualificante
della operazione non sarà tanto nella raccolta di fondi per
cancellare, quanto piuttosto nel progettare insieme gli
interventi da realizzare nei paesi individuati.
Il futuro
A fronte dell’impegno che oggi è diffuso
in tutto il mondo, occorre guardare davanti a noi con
realismo. Interessanti cambiamenti si mostrano, sia pure
timidamente, nell’atteggiamento di chi nella comunità
internazionale ha le responsabilità maggiori.
Il summit di Colonia si è concluso con un documento in cui
compare un linguaggio nuovo: per la prima volta si parla di
coinvolgimento della società civile dei paesi debitori nelle
decisioni che riguardano la gestione del debito e l’utilizzo
delle risorse che si liberano dalla sua riduzione o
cancellazione. Si è parlato di cancellazione totale di tutto
il debito originato dai crediti di aiuto, e altro ancora. Non
è ancora sufficiente, naturalmente, ma è un cambiamento
importante.
Da parte nostra occorre mantenere alta la guardia non solo a
che gli interventi della politica siano tempestivi ed
efficaci, ma anche verso noi stessi, a verificare sempre che
il nostro rapporto con in fratelli del Sud non sia, per quanto
fondato sulla solidarietà, un rapporto paternalistico in cui
si sostituisce allo sfruttamento un accompagnamento
soffocante, con la presunzione di avere tutto da insegnare e
nulla da imparare.
A Colonia, consegnando insieme le firme ai sedicenti grandi
della Terra, chi non può curare il proprio figlio o non
riesce a farlo studiare perché deve pagare a noi gli
interessi su un debito che altri hanno contratto e negoziato
ci ha ricordato che qualunque intervento, qualunque passo in
avanti, fino a che anche solo uno di questo nostri fratelli
vivrà questa condizione, è ancora drammaticamente troppo
poco.
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