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Sudan: La guerra infinita
di Raffaele Masto
Lokighokkyo, Kenya, ai confini con il
Sudan una volta era un piccolo villaggio che le carte
geografiche non riportavano nemmeno. Oggi è la sede operativa
della più importante missione umanitaria delle Nazioni Unite.
Questo piccolo centro di pastori è cresciuto
proporzionalmente all'intensificarsi della guerra tra il nord,
arabo e musulmano, e il sud, nero e cristiano-animista del
Sudan.
Due milioni di morti
Dal 1983 ad oggi ci sono stati quasi due
milioni di morti e ci sono, si stima, altrettanti profughi e
da Lokighokkyo passano, ogni anno, un miliardo di dollari di
aiuti umanitari. Qui decine di Ong (Organismi non governativi)
di tutto il mondo, sotto il coordinamento dell'Onu, spediscono
nelle regioni meridionali del più grande paese africano
volontari, viveri e medicinali.
Il
nostro aereo, un vecchio Antonov di venti posti carico di
aiuti, attende sulla pista del piccolo aeroporto sotto il
cocente sole di mezza mattina.
I due piloti americani trattano da oltre un’ ora con i
funzionari che devono rilasciare l'autorizzazione al piano di
volo. La loro missione è difficile: la nostra destinazione,
il Southern Blue Nile, non è contemplata tra quelle delle
Nazioni Unite che per volare sul sud-Sudan devono avere il
permesso del regime di Khartoum il quale teme che attraverso i
canali umanitari si facciano arrivare armi ai ribelli.
Alla fine otteniamo l'autorizzazione al decollo ma non al
piano di volo richiesto. Uno stratagemma diplomatico che
consente a noi di partire e all'Onu di non compromettersi.
Decolliamo consapevoli di non poter contare sulla protezione
internazionale e di essere, di fatto, dei clandestini.
Guerriglieri quasi bambini
Il Southern Blue Nile è una regione
strategica nella guerra tra nord e sud; vi si concentrano
tutte le ragioni economiche, militari, religiose e politiche
del conflitto. Fino a tre anni fa era completamente sotto il
controllo governativo, ma nel gennaio del 1997 i ribelli
guidati dal comandante Malik ne hanno conquistata una vasta
area. Da allora Malik è una spina nel fianco del regime e il
suo ruolo, nella complicata e rissosa gerarchia della Spla,
(Sudan People Liberation Army), l'organizzazione dei ribelli
del sud, ne ha tratto grande giovamento.
Dopo
quasi tre ore di volo l'Antonov scende di quota e punta il
muso verso una esile striscia di terra rossa nella savana
desertica. E' l'unica pista della regione che consente
l'atterraggio di piccoli aerei. Ancora pochi minuti di volo e
siamo a terra in una nuvola di polvere che oscura gli oblò.
Una folata di aria torrida investe i passeggeri appena il
portellone dell'aereo viene aperto e quando la polvere si
dirada la pista si anima di guerriglieri, tutti giovanissimi,
quasi bambini, sono armati di kalashnikov, alcuni avvolti in
bandoliere di proiettili lucenti.
Adesso i piloti hanno una gran fretta di ripartire, un aereo
fermo su una pista deserta potrebbe essere un obiettivo
allettante per i bombardieri, pur obsoleti, di Karthoum.
Guerriglieri, piloti e passeggeri scaricano rapidamente il
velivolo che dopo un attimo rulla di nuovo sulla pista.
Nel regno di Malik
Siamo a Yabus, un piccolo villaggio della
savana sudanese, nel regno di Malik e il nostro arrivo è un
evento, siamo i primi giornalisti a giungere in queste regioni
da quando, nel 1983, esplose la guerra civile.
Malik
è una specie di gigante alto due metri, con il ventre
sporgente stretto in una mimetica impeccabilmente stirata che
contrasta con quelle lacere e consunte dei suoi uomini, ai
piedi due anfibi allacciati fino al polpaccio, sulle spalle e
sul petto le mostrine rosse della Spla. Ci accoglie nel vicino
villaggio sotto un maestoso albero frondoso circondato da
capanne rotonde di paglia, nell'intero arco visivo dei nostri
occhi non c'è una costruzione in muratura.
Malik, che è anche il governatore civile di questa regione,
ci spiega che il nostro obiettivo è di arrivare a Kurmuk, una
cittadina ad una ottantina di chilometri da qui, praticamente
l'ultimo avamposto dei ribelli prima delle linee dei
governativi. Ci vorrà una intera giornata di viaggio lungo un
percorso molto duro che in diversi periodi dell'anno non è
percorribile per le piogge.
Le promesse di Malik si confermano il giorno dopo. La pista
che collega Yabus a Kurmuk è un solco di fango che fende una
savana che sembra pietrificata e deserta: maestosi baobab che
assomigliano a mostri dalle cento braccia si stagliano contro
il cielo equatoriale, acacie dai rami spinosi sfilano ai
fianchi delle toyota che si fanno strada fra piantagioni
abbandonate di sorgo e di sesamo. Le soste sono frequenti, le
ruote delle jeep affondano nella melma e i guerriglieri che ci
fanno da scorta si gettano nel fango per liberarle; hanno
kalashnikov, caricatori, proiettili, mimetiche sbrindellate,
piedi nudi e volti da bambini cresciuti troppo in fretta.
Kurmuk
Arriviamo a Kurmuk mentre il sole infiamma
l'orizzonte. Questa città una volta aveva quasi trentamila
abitanti, oggi ce ne sono molto meno, per le strade sterrate
si vedono solo militari; i civili, quelli che non sono
scappati nei campi profughi al sud, sono quelli che stanno
peggio. Vivono tra le macerie delle loro case sulle quali si
vedono ancora i colpi dei proiettili, non c'è un edificio
intero. La battaglia per il controllo di Kurmuk è stata
durissima, Malik la racconta con orgoglio: "Siamo
arrivati all'alba e abbiamo bombardato con l'artiglieria da
dietro quella montagna, poi abbiamo tentato un attacco di
terra, ma i governativi avevano minato tutti gli accessi in
città, abbiamo avuto molte perdite ma alla fine siamo
riusciti a entrare".
Kurmuk
è una località strategica, situata nell'estremità orientale
del Southern Blue Nile, ai confini con l'Etiopia. Circa 150
chilometri a nord c'è una città che si chiama El Damazin
dove una grande diga convoglia le acque del Nilo Azzurro e
fornisce tutta l'energia necessaria alla vita di Khartoum. I
governativi per difendere la diga e la città hanno
predisposto una linea difensiva insuperabile costituita da
mine antiuomo e anticarro e da sofisticati sistemi di difesa e
di allarme. Una volta la linea difensiva passava per Kurmuk;
la vittoria dei ribelli ha costretto il regime ad arretrarla,
ma quella di Malik rischia di essere una vittoria di Pirro.
La cittadina subisce ancora oggi un assedio silenzioso,
subdolo e implacabile, quello delle mine lasciate dai
governativi. Le istruzioni dei guerriglieri che ci scortano
sono precise: non possiamo muoverci da soli, non dobbiamo
uscire dal centro abitato, dobbiamo camminare solo sulle
strade già battute.
Queste restrizioni sono ancora più gravi per la popolazione
civile che non può coltivare i campi, deve accontentarsi di
ciò che cresce tra le macerie e dei pochi viveri che
elargiscono i militari. Praticamente è la fame.
Lo striminzito mercato è lo specchio di tutto questo. Nulla a
che vedere con i variopinti e chiassosi mercati africani. Le
traballanti bancarelle espongono pochi prodotti per la
sussistenza: fagioli secchi, sale, cipolle rattrappite,
minuscoli pomodorini, manca del tutto la frutta, una cosa
quasi impossibile in Africa.
Alla ricerca delle pepite
A Kurmuk di fatto non c'è economia, le poche
transazioni avvengono in piastre sudanesi, la moneta del
nemico del nord, o in “birr” della vicina Etiopia.
La gente conosce il cambio tra le due valute ma non quello tra
queste e il dollaro. A testimonianza che la regione è
dimenticata da dio e dagli uomini c'è il fatto che qui non
arriva nessun prodotto occidentale, nemmeno la coca cola.
Eppure il Southern Blue Nile è una regione ricca che fa gola
a tutti, al regime di Khartoum, ai ribelli della Spla e anche
a qualche potenza straniera. C'è l'oro e, si dice, in grande
quantità e facilmente estraibile.
Uno dei guerriglieri della nostra scorta mi fa notare nella
melma sulla sponda del fiume il luccichio di infinitesime
particelle del metallo prezioso. "Prima della guerra - mi
dice - lo sfruttava una società mista, la China-Sudan Gold.
Arrivarono qui con attrezzature e macchinari, poi so- no
fuggiti".
A pochi chilometri da Kurmuk ci sono ancora le baracche in
rovina dei minatori e adesso il territorio circostante è una
specie di gruviera punteggiato da buche larghe mezzo metro e
profonde fino a dieci. A scavarle sono intere famiglie di
civili.
Lo spettacolo ricorda i garimpeiros delle foto di Salgado. Le
donne percorrono chilometri ogni giorno in innumerevoli viaggi
per andare a prendere l'acqua al fiume. Si caricano pesanti
recipienti sulla testa e li portano sul luogo dello scavo per
inumidire continuamente la terra.
Gli uomini scavano con le mani nude, i più fortunati con
piccole zappe, e poi si calano in questi budelli cercando di
scavare gallerie laterali. Rimangono per intere giornate, al
buio, raspando la terra e rispedendola in superficie con un
cestino attaccato ad una corda.
Donne e bambini la setacciano alla ricerca delle pepite che
ogni tanto compaiono. Spesso il terreno smotta e si richiude
sul malcapitato che sta infilato carponi a diversi metri dalla
superficie.
Un lavoro bestiale per un guadagno minimo perchè qui l'oro
poi non è commerciabile.
I soli in grado di acquistarlo, a prezzi stracciati e a volte
in cambio di viveri, sono i comandanti della Spla che spesso
vanno a Nairobi o ad Addis Abeba dove l'economia del dollaro
vige.
Fare il soldato
L'unica occasione di lavoro a Kurmuk è
quella di fare il soldato. Lo si capisce visitando quella che
una volta era la scuola coranica, due edifici scrostati e
fatiscenti grandi poco più di un container. Prima della
guerra c'erano trecento alunni e sei maestri insegnavano le
sure del Corano e la lingua araba. Oggi sono rimaste solo le
bambine, una cinquantina.
I maschi sono tutti nel vicino accampamento militare dove
hanno il loro rancio giornaliero assicurato. La differenza da
quando c'erano i governativi è che adesso le bimbette possono
stare senza il velo islamico, con i capelli stopposi al vento.
Non hanno libri, quaderni, banchi, stanno nell'aula in piedi,
nei loro corpicini magri avvolti da vestitini consunti. Nella
scuola si insegna una sola materia: l'inglese, una lingua che
qui tutti vogliono imparare, la considerano l'unico legame con
il mondo.
Libertà di religione
Nella Kurmuk conquistata dai ribelli c'è
libertà di religione. Chi ha voluto rimanere islamico ha
potuto continuare a professare la propria fede.
C'è la Moschea, un semplice edificio scrostato e cadente come
tutti gli altri senza neanche il minareto, e tutti i giorni
all'alba il muezzin lancia nell'aria fresca del mattino il suo
richiamo ai fedeli per la preghiera. Qualche decina di uomini
in veste bianca si riunisce a salmodiare sommessamente i versi
del Libro Sacro. Poco lontano, su un muro sbrecciato, qualcuno
ha stilizzato con un gessetto nero il mezzo busto di un uomo
col turbante e poi lo ha sfregiato sugli occhi, nella bocca,
sul cuore. Un chiaro segno di disprezzo per i tempi in cui a
Kurmuk vigeva la sharia e gli uomini col turbante dettavano
legge.
Con la vittoria di Kurmuk Malik ha fatto anche un bottino
umano. Si tratta di circa duecento prigionieri governativi. Ci
hanno concesso di visitarli. Sono rinchiusi all'interno di un
edificio che una volta, dall'esterno, aveva le mura color
ocra. Se ne intravede ancora l'intonaco tra grosse chiazze
scrostate sotto le quali spuntano i mattoni che le
costituiscono. All'in- terno ci sono due grossi stanzoni bui e
maleodoranti e un cortile.
Quando arriviamo i prigionieri sono tutti ammassati li, con
dei grandi pentoloni alimentati da un fuoco di legna si stanno
preparando da mangiare, una densa poltiglia marrone che bolle
come una polenta.
Sono neri, ma hanno i lineamenti arabi, si chiamano Ibrahim,
Mohamed, Yusuf, Hassan. Indossano vestiti laceri e consunti,
pantaloni e magliette che hanno più buchi che tessuto.
Vivono in una spaventosa promiscuità e nel cortile hanno un
atteggiamento cameratesco chiassoso, poi alle domande del
giornalista rispondono con un filo di voce. Dicono di avere
diciassette, diciotto anni, sono prigionieri da due, tre.
Maledicono chi li ha mandati a combattere: "Ci avevano
detto che il nemico, i ribelli, i banditi del sud volevano
abbattere l'Islam, ma non è vero, qui nessuno ci impedisce di
professare la nostra religione".
Libertà per i prigionieri: combattere!
Hanno parole di elogio per la Spla e dicono
di essere pronti a combattere nelle sue fila. Forse sono
parole obbligate, pronunciate sotto il controllo dei
guerriglieri, ma è certo che gli interessi coincidono. Per
Malik questi ragazzi sono un costo inutile, devono essere
controllati e nutriti, e per loro tornare a combattere
significa la libertà, abbandonare questo cortile angusto e
questi stanzoni puzzolenti.
E' solo una deduzione, ma vien facile pensare che presto
questi ragazzi sostituiranno i loro vestiti consunti con una
mimetica lacera e saranno i primi ad avanzare verso El Damazin
sfidando le mine che magari loro stessi, prima di essere
catturati, hanno disseminato.
Per ora dopo aver parlato col giornalista tornano a
seppellirsi nel buio del loro stanzone cosparso di stuoie
consumate stese sulla terra nuda.
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