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Gli ultimi Uomini Blu
Testo e foto di Marco Trovato
Gli antichi dominatori del Sahara, emblemi di libertà e fierezza, sono oggi minacciati dall'aggressione della società moderna.
I convogli dei camion hanno sostituito le loro lunghe carovane, il vento e la sabbia hanno cancellato le secolari piste commerciali. Nel silenzio e nell'indifferenza, i leggendari "uomini blu" rischiano l'annientamento culturale.

"Narra
la leggenda che Allah, in collera con gli uomini, decise un
giorno di punirli facendo cadere sulla Terra un granello di
sabbia per ogni loro peccato. E dove un tempo c'erano fiumi e
savane, dove correvano leoni e gazzelle, nacque il Sahara, il
padre di tutti i deserti".
Il vecchio Said ama suggestionare i turisti con storie
impregnate di esotismo. Ogni sera attorno al fuoco
dell'accampamento, racconta di miraggi, tempeste di sabbia,
oasi prodigiose disperse tra le dune. Avvolto nelle pieghe del
turbante, rievoca i tempi d'oro del suo popolo, i Tuareg, i
mitici nomadi del deserto, figli del vento e delle stelle.
Parla di interminabili cavalcate sui dromedari e viaggi
faticosi sotto il sole cocente, di mandrie e pascoli che non
esistono più, di pozzi oramai prosciugati, di un mondo
arcaico e affascinante scomparso tra le sabbie.
Il Sahara dei Tuareg, terra epica di esplorazioni e fughe
celebrata in tanti film e libri di successo, non esiste più:
le frontiere demarcate dalle potenze coloniali, ereditate
negli anni '60 dagli Stati africani indipendenti, hanno
spezzato il deserto come un enorme mosaico. I nomadi sono
stati imbrigliati in una ragnatela di confini tracciati in
modo arbitrario. Le terribili siccità e carestie degli ultimi
trent'anni hanno bruciato i loro pascoli, sterminato le
greggi, messo in crisi la fragile economia pastorale. I
convogli dei camion hanno sostituito le lunghe carovane, il
vento e la sabbia cancellato le antiche piste della
transumanza. Uno dopo l'altro sono crollati i tasselli sociali
e i valori tradizionali su cui poggiava il secolare modello di
vita dei nomadi.
Per lungo tempo i Tuareg sono stati i signori incontrastati
del deserto, l'unico popolo capace di adattarsi alle
proibitive condizioni ambientali del "bahr belà mà",
l'immenso "mare senz'acqua". Percorrevano senza
sosta le vie carovaniere, tra il Maghreb e l'Africa nera,
dominando il florido commercio transahariano. Attraversavano
le sconfinate distese di sabbia trasportando oro, sale,
spezie, stoffe e avorio. Si spostavano con cammelli e grosse
mandrie di buoi alla perenne ricerca di sorgenti e corsi
d'acqua. Riscuotevano tributi dai convogli dei mercanti in
transito sulle "loro terre". Godevano della fama di
abili predatori e valorosi guerrieri (i francesi impiegarono
trent'anni per piegarne l'indole belligerante), e spesso
razziavano i villaggi delle popolazioni confinanti.
Il celebre geografo arabo Ibn Battuta, già nel XV secolo,
descrisse la loro straordinaria "civiltà della
sabbia", fondata su un solido sistema di caste. La
società Tuareg aveva una struttura piramidale: in cima l'Amenokal,
il capo di tutte le tribù; a seguire i nobili, discendenti
dell'antica casta guerriera, che assicuravano protezione ai
loro vassalli, addetti alla pastorizia, all'allevamento del
bestiame e alla guida delle carovane. Sull'ultimo gradino
della scala gerarchica si trovavano gli schiavi catturati
durante le razzie e costretti ai lavori più pesanti.
Col
passare del tempo questo tipo di organizzazione politica
cominciò a incrinarsi, a sgretolarsi, così come la
supremazia territoriale dei Tuareg e gli equilibri sociali che
per millenni avevano assicurato la loro prosperità.
Oggi i leggendari "uomini blu" (così chiamati per
via del tipico turbante blu indaco che tinge anche la loro
pelle), emblemi di libertà e fierezza, rischiano
l'annientamento culturale. Ne restano poco più di un milione,
dispersi fra cinque stati: Niger, Mali, Libia, Algeria e
Burkina Faso.
Pochi, neppure 100 mila, hanno mantenuto gli usi e i costumi
della tradizionale vita nomade: viaggiano nel cuore del
Sahara, vivendo di contrabbando o di piccoli commerci.
Percorrono per settimane piste millenarie, rinnovando gesti e
rituali senza tempo: si orientano con le stelle, dormono su
stuoie all'aria aperta, bevono da otri di pelle appese sui
dorsi dei cammelli, si cibano di datteri e formaggio di capra.
Cinque volte al giorno arrestano le carovane per pregare:
osservano il sole per individuare la direzione della Mecca,
srotolano piccoli tappeti ed eseguono le abluzioni prescritte
dal Corano. "Allah akbar", "Dio è il più
grande", ripetono in continuazione.
Purtroppo anche questi ultimi cavalieri del deserto, custodi
di un antico e prezioso patrimonio culturale, sono minacciati
dall'aggressione della società moderna.
Nell'Africa di oggi sembra non esserci spazio per un popolo di
nomadi tenacemente attaccato alla propria indipendenza e
diversità. I Tuareg vengono considerati dai Governi una
minoranza pericolosa, una minaccia, e per questo sono oggetto
di persecuzioni e discriminazioni. Le organizzazioni
umanitarie hanno più volte denunciato arresti arbitrari,
detenzioni illegali, violenze di ogni tipo perpetrate da
militari e poliziotti contro i nomadi. Spiega l'antropologo
Marco Aime: "I Paesi sahariani sono governati da uomini
appartenenti a popolazioni un tempo schiavizzate dai Tuareg,
oggi desiderosi di vendicarsi delle sopraffazioni del
passato".
Le autorità hanno avviato politiche di sedentarizzazione
forzata che hanno prodotto risultati disastrosi: sradicati dal
loro habitat e imprigionati nei caotici ritmi delle città, i
Tuareg sono stati relegati ai margini della vita sociale.
L'irrequietezza di questo popolo, che rivendica la propria
identità e che culla il sogno di uno stato indipendente,
rimane inascoltata dalla comunità internazionale. Le rivolte
dei Tuareg scoppiate negli anni '90 in Niger e Mali sono state
soffocate nel sangue. Centinaia di migliaia di famiglie,
distrutte e ridotte alla fame, sono state costrette a fuggire
dagli accampamenti. Molti nomadi hanno trovato rifugio nelle
periferie delle città del deserto - Agadez, Tamanrasset, Gao,
Timbuctù, Ghat - in baracche arroventate, senza luce né
acqua. Vivono di espedienti, piccoli lavori saltuari: vendono
oggetti di artigianato, trasportano merci e persone su camion
sgangherati, oppure coltivano fazzoletti di terra strappati
con fatica al deserto. I pochi che hanno trovato
un'occupazione stabile vengono sfruttati in miniere di uranio,
oro e altri minerali. Altri riescono a racimolare qualche
soldo coi pochi turisti di passaggio.
Il
giovane Amhed, per esempio, si guadagna da vivere
accompagnando gli europei sulle dune intorno alle oasi di
Gadames, in Libia: noleggia un dromedario, indossa turbanti
colorati e si mette in posa per le foto. "La gente vuole
vedere i Tuareg delle cartoline: lo sguardo profondo e il
portamento da nobile guerriero", racconta divertito.
"Io li accontento ma quando torno a casa mi vesto con
jeans e t-shirt". Al polso Amhed indossa un orologio
digitale. "Me lo ha regalato un turista, tempo fa",
spiega. "Non ho mai capito come funziona. Lo porto sempre
con me perché è bello da mostrare agli amici. Un giorno,
forse, imparerò ad usarlo". Inshallah.
I Tuareg vivono in bilico tra passato e
presente, tra modernità e tradizioni, con l'impossibilità di
tornare indietro nel tempo e la difficoltà oggettiva ad
assimilare nuovi modelli culturali. Non hanno smesso di
sognare gli spazi senza fine del Sahara. Sono nomadi anche da
fermi, perché - come ha scritto qualcuno - "L'essere
nomade è un modo di vivere, ma anche un modo di
pensare".
"Solo quando viaggio nel deserto mi sento davvero
felice", mi confida Hassan, un Tuareg di origini nigerine.
"Una casa, una vera casa di pietra o mattoni, è come una
tomba... Si può anche vivere qualche volta sotto una tenda,
ma la cosa migliore per noi è dormire sotto un tetto di
stelle".
Hassan è bravo e fortunato: lavora per un tour operator e
scorrazza per il deserto libico piccoli gruppi di turisti.
Guida costosi fuoristrada muniti di sistemi di orientamento
satellitare, ma non rinuncia a preservare alcuni usi e costumi
del suo popolo. Cuoce il pane sotto la sabbia arroventata
dalle braci e prepara il tè secondo un rituale antico e
immutato, fatto di mille travasi.
"La tradizione impone che vengano offerte tre
tazze", racconta. "La prima è amara come la vita.
La seconda dolce come l'amore. La terza soave come la
morte".
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